20-8-2004 “L’Italia fa il pieno di contratti aziendali: Alenia, Finmeccanica, Datamat, Galileo Avionica, Piaggio… per 138 milioni di dollari già ottenuti e altri 515 impegnati…a meno che il programma non sia cancellato” ( v. Andrea Bassi- Mercati e finanza, citato da www.disarmo.it). 2005 “Investire in sicurezza. Forze armate, uno strumento in evoluzione” Documento dello Stato Maggiore della Difesa che riporta i principi del nuovo modello di difesa. Pag 10: tra i compiti militari: “…Tempestiva tutela degli interessi vitali nazionali ovunque essi siano compromessi” (allegato al Mensile Tecnologia & difesa n° 19 del 2005 ) 4-7-2006 Medaglia d’oro al generale G. Fantuzzi per l’accordo bilaterale Italia Olanda del 30 marzo 2006, che stabilisce all’interno del progetto JSF per l’Italia la Linea di assemblaggio finale e verifica dei velivoli e per l’Olanda la Linea di manutenzione e revisione di motori e equipaggiamenti, per i velivoli che saranno acquistati dai 2 Paesi. (dal sito Ministero dell’aeronautica) 12-7-2006 Cerimonia nel Texas: Lightning II è il nuovo nome del JSF 35. Presenti gli 8 paesi partner: Australia, Canada, Danimarca, Italia, Norvegia, Olanda, G.B., Turchia.. Lockheed Martin che prevede nei prossimi mesi il volo inaugurale dei primi caccia, registra un fatturato 2005 di 37,2 miliardi di $. ( www.paginedidifesa.it) Livelli di partnership : Partner di 1° livello, con maggiori finanziamenti e trasferimento di tecnologie: USA Canada Australia GB Partner di 2° livello, senza trasferimento di tecnologie: Italia Olanda Partner di 3° livello: Norvegia, Danimarca, Turchia. Solo acquirenti (?) : Singapore e Israele PER SCHEDE TECNICHE: V. Rivista Aeronautica, primo fascicolo dell’anno 2006 Da cui: “F35: Velivolo multiruolo, stealth=invisibile ai radar, espressamente progettato per il “fuori area”, con sistemi di comunicazione/informazione molto avanzati e sofisticatissimo armamento di precisione…” SGUARDI CRITICI ANALISI “IL JOINT STRIKE FIGHTER IN EUROPA” A cura di Corinne Asti, CeMiSS – Centro militare di studi strategici Supplemento N° 8/9 settembre 2005, 77 pagg. www.casd.difesa.it per una analisi comparata tecnica e strategica dei progetti F35 e Eurofighter Dalla Prefazione: L’autrice mette “in discussione la scelta di partecipare al progetto F35 piuttosto che investire nella ricerca europea…alla luce delle tremende difficoltà affrontate dagli USA in questo programma… anche dell’atteggiamento di istituzioni e industrie americane sempre più protezioniste…” MANLIO DINUCCI. “SAREMO NOI CONTRIBUENTI A FINANZIARE, COL DENARO PUBBLICO, IL CACCIA STATUNITENSE.” L'Italia sta per entrare, a tutti gli effetti, nel programma di sviluppo del caccia Joint Strike Fighter. La Commissione difesa del senato ha approvato, in maggio, la proposta del governo di finanziare il «Programma pluriennale di ricerca e sviluppo dello Stato maggiore dell'aeronautica n. 2/2002 relativo allo sviluppo del velivolo Joint Strike Fighter (n. 99)». Si tratterebbe, secondo la relazione presentata dal senatore Minardo della maggioranza, di un «programma che vede coinvolti numerosi paesi quali gli Stati uniti, la Gran Bretagna, il Canada e in cui è prevista a breve la partecipazione dell'Olanda, della Turchia e della Danimarca». Viene presentato, in altre parole, come un programma di collaborazione paritetica nel campo della ricerca e sviluppo del settore difesa. Non è così: quello del caccia Joint Strike Fighter è un programma interamente statunitense, che il Pentagono realizza attraverso la Lockheed Martin, al quale le industrie aeronautiche di altri paesi sono ammesse solo come subcontrattiste (v. il manifesto, 30 maggio). L'Italia vi parteciperà con un gruppo di 29 aziende, capeggiato da Alenia Aeronautica e Fiat Avio. Ma, per avere tale privilegio, dovrà addossarsi una parte dei costi del programma, versando un miliardo di dollari a fondo perduto. Questi soldi non usciranno dalle casse delle aziende partecipanti, ma dalle nostre tasche: saremo noi contribuenti a finanziare, col denaro pubblico, il caccia statunitense. Ben poca cosa in confronto a quanto dovremo spendere quando il caccia sarà ultimato. Dato che i paesi partecipanti alla sua realizzazione (tra cui Israele e Turchia) saranno i primi a dotarsene, l'Italia ne acquisterà un congruo numero: si parla di circa 150 velivoli. Il loro prezzo, ha assicurato il sen. Minardo, sarà veramente conveniente. Da un primo calcolo, dovremo pagare appena 20-30 miliardi di euro, corrispondenti a 40.000-60.000 miliardi di vecchie lire. Ma la partecipazione italiana al programma del Joint Strike Fighter implica anche altre questioni. Il nuovo caccia statunitense è concorrenziale rispetto all'Eurofighter Typhoon, il caccia europeo Che l’Italia acquisterà con una spesa complessiva minima (sempre con i nostri soldi) di circa 8 miliardi di euro (16.000 miliardi di lire). Secondo il presidente dell'Aiad (Associazione industrie per l'aerospazio), non c'è conflitto tra i due caccia in quanto «rispondono a ruoli diversi e sono assolutamente complementari». In realtà, essendo ambedue i caccia multi-ruolo, le loro funzioni fondamentali si sovrappongono. L'Eurofighter è destinato al combattimento aria-aria, ossia all'intercettazione e distruzione di aerei in volo, ma è allo stesso tempo in grado di svolgere missioni aria-terra e aria-mare per colpire obiettivi terrestri e navali. Ha caratteristiche stealth per sfuggire ai radar e sopprimere le difese antiaeree. Il Joint Strike Fighter, anch'esso stealth, sarà prodotto in tre versioni: la prima, per l'aeronautica, destinata a combattimenti aria-aria e ad attacchi aria-terra e aria-mare; la seconda, per il corpo dei marines, che a tali capacità unirà quella di un decollo corto o verticale; la terza, per la marina, con caratteristiche simili ma più adatte alle portaerei. Nella battaglia tra i due caccia sul mercato, il Joint Strike Fighter ha per ora la meglio: l'aeronautica, la marina e i marines statunitensi, più l'aeronautica e la marina britanniche, ne acquisteranno circa 3.000 (di cui 2.000 solo l'aeronautica Usa), cui si aggiungeranno quelli che saranno acquistati dai paesi che collaborano al programma e da altri acquirenti. Per ciò che riguarda l'Eurofighter, invece, i 4 paesi costruttori si sono finora impegnati ad acquistarne «solo» 620. A premere perché l'Italia e l'Europa si imbarchino sul Joint Strike Fighter è il generale Mario Arpino, capo di stato maggiore della difesa. Su Air Press (27 maggio 2002) egli sostiene che occorre «trarre il massimo vantaggio di know-how da una partecipazione qualificata e qualificante al Joint Strike Fighter», concentrandoci su «ciò che sappiamo fare bene da soli a livello europeo, come elicotteri e velivoli da addestramento»: per questo, «non è il caso di caldeggiare una tranche 3 dell'Eurofighter nel ruolo di attacco, in quanto non potrà mai rispondere sotto alcun profilo alle esigenze dell'Aeronautica negli scenari del secondo quarto di secolo», né tantomeno «farsi abbagliare da allettanti contromosse al Joint Strike Fighter, come l'ultima, proveniente da un noto pulpito d'oltralpe, di unire le forze per addentrarsi nell'avventura di un velivolo di nuova generazione esclusivamente europeo». Di parere opposto sono i Democratici di sinistra che, in un convegno svoltosi il 6 maggio a Roma e in un comunicato diffuso il 20 maggio dall'Unione DS Alenia Aeronautica Torino, sostengono che «la scelta del Joint Strike Fighter metterà in crisi l'evoluzione delle strategie europee nel campo della difesa», in quanto «lo sviluppo del Joint Strike Fighter verrà effettuato esclusivamente in Usa» e «le risorse necessarie per l'acquisizione nei prossimi anni della flotta di Joint Strike Fighter saranno sottratte alle ulteriori tranche dell'Eurofighter». Per di più, «dotare la nostra Aeronautica di uno strumento come il Joint Strike Fighter, ammesso che gli Usa ne permettano una effettiva autonomia di impiego, significa che l'Italia ha deciso di entrare nei prossimi anni nel ristrettissimo numero di nazioni che si assumono il diritto di intervento immediato nelle aree di crisi del mondo con una fortissima capacità distruttiva». Per questo, concludono, «riteniamo che l'eventuale firma del Mou (memorandum d'intesa) - ovvero il parziale finanziamento agli Usa delle ricerca tecnologica e dello sviluppo del velivolo - rappresenta un ulteriore passo decisivo per mettere in crisi il Progetto del sistema europeo di approvvigionamento per la difesa». Ormai, però, il pericolo non consiste nella «eventuale firma del memorandum d'intesa». Come documenta il sito ufficiale del Joint Strike Fighter, «l'Italia ha firmato un Moa (memorandum d'accordo) per partecipare al programma del Joint Strike Fighter, il 23 dicembre 1998», ossia durante il governo D'Alema. L'Italia, come dimostrò la successiva partecipazione alla guerra contro la Jugoslavia, aveva dunque già deciso di «entrare nel ristrettissimo numero di nazioni che si assumono il diritto di intervento immediato nelle aree di crisi del mondo con una fortissima capacità distruttiva». (da ww.altraofficina.it/fuoritempo 2002) PER APPROFONDIRE “ UNO SGUARDO AL MERCATO DEGLI ARMAMENTI “ PAGINE DI DIFESA - LORENZO MAZZORIN, 2 SETTEMBRE 2004 Come si scelgono i sistemi d’arma. Nella scelta dei sistemi d'arma di cui un paese decide di dotarsi, gioca un ruolo fondamentale l'aspetto delle relazioni internazionali. E' infatti molto importante poter assicurare un durevole rapporto di amicizia fra i due paesi che portano a termine la compravendita, sia per chi compra questi prodotti che per chi li vende: per i secondi è importante essere sicuri del fatto che le armi appena vendute non vengano usate in modo improprio, mentre per i primi è importante poter contare sugli approvvigionamenti delle parti di ricambio e di quant'altro necessario al buon funzionamento dell'armamento. Il mercato delle armi è quindi più di altri sintomatico della bontà delle relazioni fra Stati, dal momento che il detto "pecunia non olet" non si applica a questo particolarissimo campo del commercio globale: vendere al proprio nemico l'arma finale (chimera inseguita dalla notte dei tempi), può infatti essere, prima che rischioso, stupido. Se persino in tempi di guerra fredda si poteva chiudere un occhio sull'acquisto di macchine fotografiche dalla Cina comunista, lo stesso non sarebbe stato per una partita di missili intercontinentali. L'analisi del mercato delle armi è quindi molto interessante, in quanto permette di comprendere le politiche sul lungo termine, essendo gli eserciti al tempo stesso artefici e strumenti della politica estera. La durata di un governo è limitata a pochi anni, mentre le scelte in campo militare hanno un respiro almeno ventennale: è infatti questo il tempo tipico per lo sviluppo di un sistema d'arma e la sua messa in linea, il che porta il potere politico alla scelta di lasciare una certa liberà d'azione ai militari nella selezione dei partner internazionali. Determinante non è infatti solo il problema economico, senz'altro importante, ma anche l'orizzonte politico. Lo sviluppo di sistemi d'arma non può infatti non tener conto del contesto in cui questi verranno presumibilmente impiegati: per quanto un piccolo Stato possa infatti investire in difesa, la potenza del suo esercito sarà sempre trascurabile rispetto a quella di una super potenza militare come gli USA o la Russia, a meno che questo Stato non sia inserito all'interno di una rete di alleanze tale da permettergli una efficace risposta in caso di attacco. In questo caso i sistemi d'arma non verranno più sviluppati dal singolo Stato, ma si creerà tutta una serie di joint venture fra le industrie belliche dei paesi membri della rete di alleanze, al fine di sviluppare sistemi d'arma moderni dividendo i costi. Analizzare l'armamento a disposizione dei vari Stati permette quindi di risalire a questa rete di alleanze a volte tutt'altro che ovvia: per fare un esempio, l'India, membro del Commonwealth, ha strettissimi legami con la Russia, legami per altro di lunga data. Questo può non essere ovvio, viste le posizioni di altri paesi membri di questa organizzazione, come il Canada, la Gran Bretagna o l'Australia, ma lo diventa se si osserva che l'aeronautica indiana è quasi interamente costituita da velivoli sovietici. Fra gli Stati si possono individuare tre tipologie di approvvigionamento di sistemi d'arma: paesi che se le producono da soli, paesi che le acquistano dall'esterno e paesi che modificano armamenti di fabbricazione estera. Ovviamente non esiste un paese esclusivamente produttore o esclusivamente consumatore: gli Stati Uniti, per esempio, si producono gran parte dell'armamento ma comprano (senza modifica alcuna) armi leggere e altre attrezzature di nicchia dall'Europa. L'atteggiamento in politica estera legato alla produzione in proprio è quello della superpotenza, che desidera, da un lato affrancarsi dagli alleati negli approvvigionamenti militari, al fine di poter attaccare chiunque, se necessario, dall'altro legare a sé tutta una serie di paesi acquirenti, creando così una solida area di influenza. Gli Stati che, invece, acquistano la maggior parte degli armamenti senza apportare sostanziali modifiche, o hanno bisogno immediato degli stessi, in quanto hanno delle guerre in corso, o hanno scarsa intenzione di attaccare i propri vicini. La Svizzera compera, senza applicare modifiche, aerei dagli USA e radar dall'Italia, dal momento che un'invasione da parte o contro questi due Stati è semplicemente impossibile. Infine, gli Stati che modificano armi progettate da terzi, sono quelli che, pur volendo mantenere attiva un'industria militare nazionale, non hanno le risorse per sviluppare autonomamente sistemi complessi e costosi, come caccia, navi o sistemi antiaereo. E' il caso dell'Italia, che fino a pochi decenni fa modificava armi di terzi anziché produrle in proprio. Passando ora all'analisi della situazione europea, l'esigenza di unirsi in una federazione di Stati con una moneta comune e comuni programmi di difesa è stata anche dettata dal desiderio di non essere più nella scomoda posizione dell'oggetto del contendere fra due potenze militari soverchianti. Con la caduta del muro di Berlino, il collasso della superpotenza comunista e il pessimo momento della superpotenza capitalista l'orizzonte in politica estera dei paesi europei è radicalmente cambiato: l'Unione Europea è infatti ora una superpotenza economica, che può ambire quindi a una leadership mondiale anche in campo politico e militare. Da questo è nata una sempre più stretta collaborazione fra le industrie militari europee, in particolare fra quelle di Gran Bretagna, Francia, Italia e Germania, per la realizzazione di progetti altrimenti inconcepibili per una sola nazione europea. I risultati, almeno per ora, non sono stati deludenti, in quanto sistemi d'arma come per esempio i cacciabombardieri Eurofighter, i missili Aster o le fregate antiaereo classe Orizzonte, non hanno nulla da invidiare a quelli di fabbricazione americana o sovietica. Impiegando lo strumento di analisi descritto a questo scenario, quindi, la politica sul lungo termine dei paesi di quest'area risulta tesa alla costituzione di una superpotenza, non necessariamente antagonista degli USA, ma certamente da questi indipendente. Se non altro per quanto riguarda il settore difesa è probabile che siamo ormai giunti a un punto di non ritorno, visti gli investimenti, non solo finanziari che sono stati fatti in tal senso. Dopo che sono stati investiti 3,2 miliardi di euro per il progetto Galileo, che è da ingenui pensare che non verrà rapidamente riconvertito a uso militare se necessario, una marcia indietro sarebbe decisamente controproducente. E' in quest'ottica che risultano discutibili le scelte politiche di alcuni governi, più impegnati a mostrare fedeltà all'alleato americano piuttosto che a curare gli interessi dell'Unione Europea (cioè gli interessi di tutti i loro elettori, a meno di non diventare il 51° Stato americano). Queste sono oltremodo dannose, poichè turbano la linearità del percorso che dovrebbe portare alla costituzione di un potente apparato di industrie belliche. Il riferimento è, ad esempio, alle scelte inglesi di ritirarsi dal programma Orizzonte, come a quella italiana di ritirarsi dal programma A400M. Può anche darsi, infatti, che questi paesi riusciranno a dotarsi di sistemi d'arma più a buon mercato, e magari anche più efficienti, di quelli che avrebbero potuto reperire tramite cooperazioni europee, ma è placido che in questo modo non avranno aiutato lo sviluppo di un sistema industriale autonomo. Visto che, in questo particolare momento storico, gli unici due nemici che potrebbero minacciare seriamente l'Unione Europea sono decisamente fuori portata, sarebbe infatti più utile preparare una solida struttura industriale, piuttosto che dotarsi di sistemi d'arma oggi attuali, ma che non lo saranno certo più fra 15 anni. Per concludere, risulta da quest'analisi discutibile l'atteggiamento di Stati come la Polonia, che ha preferito sottoscrivere contratti per miliardi di euro con gli USA, piuttosto che con i partner europei, per l'ammodernamento della sua aeronautica. A parte il fatto che gli F-16 comperati da questo Paese non possono certo competere con gli Eurofighter Thyphoon, rispetto ai quali scontano 20 anni di progresso in meno, il vero problema è che l'atteggiamento appare quantomeno ambiguo: non si capisce infatti se il desiderio di questo Stato sia quello di entrare nell'Unione Europea per farne davvero parte, contribuendo alla sua crescita, oppure per costituire una sorta di infiltrato con lo scopo di sabotare il processo di integrazione. Dalle azioni decise dal governo polacco, e non solo in materia di armamenti, effettivamente il dubbio sorge. L'ipotesi più favorevole è che questo non sia altro che un "overshooting" dovuto alla liberazione da un regime oppressivo. Molti Stati, infatti, usano gli approvvigionamenti militari per dare uno schiaffo ai loro ex-referenti, come per esempio ha fatto l'Arabia Saudita predendo in opzione i cacciabombardieri Eurofighter Typhoon. Anche in questa ottica, tuttavia, andare a comprare armi da un diretto concorrente dei propri partner, può facilmente apparire come una scelta scorretta | |