Lorenzo : |
18/7/2005 13:30 |
Interessante memoriale di un deportato militare in Germania:
TI TRATTANO COME... COME SE SEI UN TOPO
L’8 settembre 1943: per l’Italia la guerra doveva essere finita. L’esercito italiano doveva rimanere a presidiare il territorio.
Invece succede che i nostri comandanti non hanno accettato l’armistizio. Chiaramente erano tutti comandanti fascisti, perchÈ ci sono stati dei comandanti, che non erano fascisti, che hanno lasciato liberi i soldati: «Andate a casa». Invece questi comandanti - è una cosa incredibile - hanno fatto un accordo col comando tedesco di prendere i soldati italiani e di portarli via.
Io ero qui ad Alessandria, al «II Autocentro», che ero da pochi mesi ritornato dalla Russia. Cos’hanno fatto, questi comandanti? Con un inganno, ben congegnato, ci hanno fatto restare tutti in caserma: «Nessuno si muova, perchÈ se i tedeschi reagiscono, noi dobbiamo essere pronti a difenderci».
Questo ci sembrava giusto. Invece era un trucco. Il giorno 9 di settembre arrivano quattro autoblindo tedesche, con una trentina di soldati e qualche ufficiale, e hanno circondato la caserma.
Il comandante, il generale comandante, ha fatto issare bandiera bianca, ha suonato l’allarme: «Nessuno si muova, i tedeschi ci massacrano tutti, dobbiamo stare fermi, nessuno si muova!». Il trucco era di farci prendere in caserma, farci prendere dai tedeschi.
I tedeschi, il giorno dopo, ci hanno caricati, cinquanta per vagone, e ci hanno portati su al nord della Polonia, a Torun, sul fiume Vistola.
E così noi ci hanno gettato nell’inferno dei lager.
Il fatto è che non ci hanno considerato prigionieri. Ci hanno considerato traditori, perchÈ, prima di partire, ci hanno proposto di continuare a combattere a fianco dei tedeschi. Prima di partire, ci hanno fatto questo discorso: «Non dobbiamo abbandonare i nostri camerati tedeschi.
Abbiamo combattuto insieme su tutti i fronti: non dobbiamo abbandonarli, dobbiamo continuare». Continuare cosa? Una guerra oramai persa.
Gli americani erano già sbarcati in Sicilia e venivano avanti. L’Italia era allo stremo. La scelta era o di stare coi tedeschi, continuare a uccidere, o rischiare noi la vita. Nessun soldato ha accettato. Tutti abbiamo detto: «Piuttosto che continuare la guerra, e magari scontrarci con gli stessi italiani, andiamo noi a rischiare la vita».
Lá , nei campi di sterminio, la prima cosa che fanno i nazisti è distruggerti come persona. Ti trattano male, ti sputacchiano.
Non ti trattano piú come uomini, ma ti trattano come - non So - come se sei un topo.
Siamo arrivati a Torun, e tutti i giorni ne arrivavano: ne arrivavano dalla Iugoslavia, dalla Grecia. Dove c’erano soldati italiani, i tedeschi li hanno portati via.
Dopo una decina di giorni eravamo già lì in undicimila, di italiani, e allora, dopo qualche mese, ci hanno smistati, ci hanno mandato nelle fabbriche a lavorare, qua e lá . A me mi hanno mandato a Breslavia, nella piú grande fabbrica carri armati. Facevano i Tiger, i Panther, i carri armati per la Wehrmacht l’esercito tedesco.
Ci facevano lavorare dodici ore, dalle sei della mattina all sei di sera. Da mangiare ci davano un etto, un etto e mezzo di pane al giorno quattro patatine, o un mestolo di brodaglia. Perciò, dopo due mesi - eravamo quattrocento italiani — dopo due o tre mesi così, siamo rimasti la metá .
Rimasti a dover morire di fame, perchÈ, se non si mangia, si muore. lo ho ancora il segno qui, sulla schiena: il sangue diventa acqua, diventa acqua rosa, e usciva acqua rosa. Finisce il sangue, finisce la vita.
Cominciavano a metterti in fila alle cinque della mattina. «Sveglia!».
Ti davano un mestolo di tè, ma era acqua calda, sporca. Continuavano a contarci, ricontarci. Poi c’era un chilometro di strada per andare in fabbrica.
La fabbrica era grande come metà Magenta: lavoravano tredicimila operai.
C’erano duemila prigionieri russi, poi tedeschi, e internati civili, da ogni parte Facevano lavorare tutti. Si aspettava la morte. Tutti i giorni ne moriva uno, due tre. Pensare che andavamo in fabbrica con le barelle, per raccogliere quelli che morivano per strada... Mandavano in fabbrica a lavorare gli scheletri. lo stesso, una mattina, ho trovato lì, quello vicino a me, morto. E mi sono messo a piangere, e ho detto: «Ma perchÈ lui sì, e io no?». Si invocava la morte come un liberazione, perchÈ ormai non c’era piú speranza. Sperare che cosa? Si spera va di abbreviare la fine.
Dentro la fabbrica c’erano anche dei tedeschi che avrebbero voluto darci un pezzo di pane, ma avevano una paura tremenda. Se lo sapevano i comandi che si dava un aiuto ai soldati italiani, li fucilavano loro.
Tornati dal la fabbrica, si trovava lì un mestolo di zuppa. E io tante volte ho rischiato, ho preso un sacco di nerbate sulla schiena, per andare a rubare la pelle di patata. Là mangiano molto le patate, patate cotte, bollite. Gli tagliano la pelle e la buttano nei bidoni. Ma alla pelle rimane attaccato qualcosa. E allora per andare a rubare le pelli di patate, se la facevi franca, bene, se no, ti prendevano e ... Una ventina di nerbate sulla schiena. Però il giorno dopo andavo lo stesso.
Eravamo in quarantotto in una camerata. Eravamo uno addosso all' altro pieni di pidocchi, pidocchi a migliaia. i vestiti erano quelli che avevamo in dosso quando siamo partiti, ed erano) ancora quelli dopo due anni. Tenere in dosso la stessa maglia, la stessa camicia, le stesse mutande per due anni... E no li si poteva lavare. C’era la disinfezione, una volta ogni mese, mese e mezzo mandavano la disinfezione, ma i pidocchi non morivano.
Comunque mi sono salvato, ed esattamente perchÈ è arrivato un pacco, tramite la Croce Rossa, e poi perchÈ mi hanno messo a lavorare in un piccolo laboratorio, dove si caricavano le batterie dei carrelli, si rigeneravano le batterie.
Il capo era un polacco, di Cracovia. Da Breslavia a Cracovia ci saranno centocinquanta, duecento chilometri. Lì vicino c’era anche Auschwitz. Comunque lì era uguale ad Auschwitz, perchÈ per gli ebrei c’era la prospettiva di andare a finire nei forni crematori, per noi di morire di fame. Quel polacco lì ha visto le mie condizioni, che non mi reggevo piú in piedi, e ha spezzato il suo pane. Metà del suo pane me lo dava. Mi dava anche un po’ di zuppa.
Di qua, di lá ... E stato sufficiente, chÈ a poco a poco, a poco, si riprende. Si riesce a sopravvivere. Però poi, a riprendere le forze, ci vuole mesi e mesi.
Quando l’Armata Rossa si avvicinava a Breslavia – possiamo ringraziare l’Armata Rossa – allora i tedeschi hanno cominciato anche a trattarci un po’ meglio, perchÈ avevano molta paura dei russi. Sapevano quello che avevano fatto in Russia, e io sono testimone, chÈ lá , in Russia, abbiamo visto di quelle cose.. Cose orrende. PerchÈ, invece, noi soldati italiani, lì in Ucraina, dov’eravamo noi, la popolazione ci vedeva bene, e quando c’è stata la ritirata hanno salvato la vita a migliaia di soldati? PerchÈ non eravamo violenti. Certo, al fronte si combatteva. Ma nelle retrovie c’era quasi un tacito accordo tra i soldati italiani e la popolazione sovietica: ci si aiutava, si scambiava qualcosa. Ecco che, quando c’è stata la ritirata, il popolo sovietico ha salvato la vita a migliaia di soldati.
Mentre noi, noi eravamo andati ad aggredire un popolo che all’Italia non ha fatto niente di male. Quando sono partito per la Russia, c’era un vescovo a darci la benedizione. «Ritornate vincitori! Portate il Cattolicesimo oltre gli Urali...». Se non c’era la generosità della popolazione sovietica, non ritornava piú nessuno, perchÈ a quaranta gradi sotto zero, e senza mangiare, e continuare a camminare, con quaranta, cinquanta centimetri di neve... Quanti sono impazziti, e si sono tolti la vita!
Ma dicevamo, prima, che ormai l’Armata Rossa si avvicinava. Il primo di gennaio del 1945 li hanno dato l’ordine di evacuazione della città di Breslavia. Scene da Apocalisse. La gente impaurita, famiglie intere che scappavano. Genitori che non trovavano piú i figli, I bambini in cerca dei genitori. Bestiame abbandonato. E noi... Per qualche giorno, ci hanno tenuti assieme, ci hanno accompagnati.
Poi, una mattina, non vediamo piú nessuno: siamo restati abbandonati, così. Perciò ho cominciato a camminare. Da Breslavia siamo arrivati a Praga, al primo di marzo. Tutti i giorni facevamo quindici, venti chilometri.
Si andava in cerca di qualcosa da mangiare. Da Praga siamo arrivati lì a una cittadina, Brix, proprio lì in Boemia, e ci hanno offerto lavoro.
Ci hanno mandato in una cristalleria. Lì ci hanno trattato veramente bene: noi siamo risorti, perchÈ avevamo perso la coscienza di essere ancora uomini, abituati a esser bastonati, sputacchiati. La gentilezza di quella gente ci ha ridato la coscienza di essere ancora persone. E così siamo rimasti lì sino all’ 8 maggio, il giorno che è finita la guerra. L’Armata Rossa è arrivata lì, e a Pilsen i russi e gli alleati si sono congiunti.
Finita la guerra siamo venuti ancora a piedi, da Praga – da vicino Praga – fino a Vienna. Fino a Vienna i ponti sul Danubio erano tutti crollati. Gli americani, però, non accettavano piú quelli che arrivavano, perchÈ erano in troppi.
E allora il governo sovietico ci ha trattenuto fino ad agosto. Così siamo stati lì ancora un paio di mesi, in Austria, a una trentina di chilometri da Vienna.
Ci hanno trattenuti finchÈ gli americani hanno avuto la possibilità di smistarci, di mandarci a casa.
Sono arrivato a casa che era il 23 agosto, del 1945. La gente tutta dimagrita... Mio padre, anche lui - un uomo grande e grosso - dimagrito... Non c’era piú niente da mangiare.
Anche qui avevano sofferto l’invasione dei tedeschi. Ma quando una guerra finisce... Nonostante tutto, ci siamo sentiti ancora cittadini, e abbiamo ripreso energia, e abbiamo cercato di ricostruire la vita.
UMBERTO GARAVAGLIA
Nato neI 1918 e residente a Magenta. Operaio in pensione. [http://www.anpimagenta.it/pagine/agg/anni/04/agg-13-11-04/sbiagio.htm] | |
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